Sotto la plastica, niente.
Gli anni '80 hanno segnato per I Tull una sorta di nuovo inizio sotto molti punti di vista e anche il fatto che il primo album della decade si sia intitolato proprio “A”, pare, a posteriori voler comprovare ciò. Le sonorità bucoliche e folkloristiche plasmate dalla mente di Anderson, sono state progressivamente sostituite da ritmi elettronici moderni – per l'epoca – e da trame sonore che abbracciano il pop. Tutto ciò ha avuto questo duplice effetto: da un lato di generare orrore nei fans della prima ora, sbigottiti dalle nuove sonorità, dall'altro di lasciare del tutto indifferente il pubblico restante. E' infatti un dato acquisito, che la trilogia composta da “A”, “Broadsword And The Beast” e “Under Wraps”, costituisca dal punto di vista commerciale, il punto più basso toccato dalla band inglese. Sempre che di band si possa parlare, dato che I Tull oramai sono ridotti al leader Ian Anderson ed al fido chitarrista Martin Barre, accompagnati da una serie di turnisti ai loro servigi. E artisticamente parlando? Eh... qui la questione diviene decisamente più complessa, in quanto, è impossibile paragonare le vecchie composizioni a quelle attuali, troppo differenti sotto ogni punto di vista. La drum machine spadroneggia già dall'iniziale “Lap Of Luxury”, brano di facile presa, impostato su un groove lineare, baciato da un ritornello orecchiabile. La chitarra in quest'occasione è ridotta ai minimi termini, lasciando in evidenza le tastiere di Peter John Vettese. Scelto comprensibilmente come primo singolo e accompagnato da un discutibile videoclip, risulta ad oggi uno dei brani migliori del lotto. “Under Wraps #1” si snoda su ritmi ancora più incalzanti, purtroppo fiaccati da uno smodato uso dell'elettronica, che riesce ad affossare le pur buone potenzialità del pezzo. L'inizio sincopato di “European Legacy”, nella quale ritroviamo il flauto magico in primo piano, fa ben sperare, ma il brano scivola velocemente in un maldestro ed impacciato susseguirsi di linee vocali mediocri e dinamiche qualitativamente ben al di sotto della sufficienza. “Later That Same Evening” è introdotta da un imbarazzante tappeto di tastiere, volto a conferire un mood notturno, che per quanto ci riguarda, riesce solo a farci venire un gran sonno. Soffochiamo gli sbadigli e proseguiamo con “Saboteur”, dove finalmente risentiamo un riff di chitarra come si deve, che va di pari passo con un discreto fraseggio di flauto. Anche in questa occasione, la confusione regna tuttavia sovrana, giacchè a questi elementi si accompagnano input sintetici, spezzati all'improvviso da un guitar solo che pare essere finito lì per caso, a causa di un errato missaggio. Le speranze di un improvviso rinsavimento di Anderson, si scontrano con la successiva “Radio Free Moscow”, quattro minuti di scialbo pop rock che scivola nel nulla assoluto, nonostante le tematiche socio-politiche del pezzo. “Astronomy” inizia come un (brutto) pezzo dei Kraftwerk, e continua persino peggio, in quanto non ci risulta pervenuto alcuno sviluppo melodico che abbia un minimo di senso, sopratutto per quanto concerne gli irritanti impasti vocali. “Tundra”, glaciale sin dal titolo, progredisce in un monotono pattern, puntellato da inserti tastieristici tronfi e pacchiani. Superato a malapena l'istinto di estrarre brutalmente il cd dal lettore e utilizzarlo come frisbee per il cane (ma non è detto che prima o poi non accada!), ci imbattiamo nell' intro vagamente reggae (!) di “Nobody's Car”. Anche qui brancoliamo nel buio, faticando ad individuare una trama ispirata o quanto meno accattivante. Con “Heat” ritorniamo a respirare un'aria molto vagamente rock'n'roll, soprattutto per quanto riguarda le parti vocali di Anderson, mentre il tessuto sonoro e' l'ennesimo pastiche di elettronica e pop dozzinale, fatto di continui stop'n'go e break senza capo nè coda. Da salvare unicamente l'intervento (purtroppo solo accennato) di Barre alle sei corde. “Under Wraps #2” non è altro che una mesta 'reprise' del primo episodio, qui proposto in chiave acustica. Ovvero l'inutilità sommata all'inutilità. Il famoso detto non c'è limite al peggio si addice bene a “Paparazzi”, sconfortante esempio di come non vada composto un brano pop o rock che sia. Giungiamo (alleluja!) alla fine di questa impresa con “Apogee”, malinconico episodio dalle vaghe tinte reggae, dove prosegue l'irritante percorso ad ostacoli, fatto di partenze ed improvvise interruzioni, che rendono l'ascolto molto simile ad una crociera in acque agitate. Dopo un sofferto tour di supporto all'album, ed uno stop forzato dovuto a problemi alle corde vocali di Anderson, bisognerà aspettare ben tre anni prima di vedere sugli scaffali dei negozi un nuovo lavoro della band, intitolato “Crest Of A Knave”. Sebbene il disco veda un riavvicinamento di Anderson a sonorità più rock, i tempi d'oro oramai sono solo un tenue ricordo del passato.
Tracklist:
Lap Of Luxury
Under Wraps #1
European Legacy
Later, That Same Evening
Saboteur
Radio Free Moscow
Astronomy
Tundra
Nobody's Car
Heat
Under Wraps #2
Paparazzi
Apogee
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